“Essere Guida” di Lucina Spaccia

C’è una parola delle mie radici AGI che mi è rimasta incollata nell’anima e sulla pelle: è la parola Gioia.

A seguire, pubblichiamo le parole che Lucina Spaccia ha condiviso con il Consiglio generale in occasione degli 80 anni dell’AGI (Associazione Guide Italiane).


È una grandissima gioia essere qui con voi al Consiglio generale ed è anche una forte emozione essere stata chiamata a narrare una storia che ci appartiene e che ha tessuto la trama della nostra associazione. I fili si dipanano nel tempo e io ho avuto il dono di averne uno in mano trasmessomi, a sua volta, da chi aveva iniziato a tessere il sogno.

Sono entrata nelle Guide nella seconda metà degli anni ’60 quando il soffio del Concilio Ecumenico da poco concluso penetrava nella chiesa e il ’68 era alle porte e tutto il fermento di quel periodo aleggiava affascinante nella proposta che offriva il Reparto alla mia adolescenza: natura, gioia, amicizia, fede e, impalpabile, la graduale formazione della mia persona, dell’essere donna. Avevo quindici anni e il mio Reparto, giovane, giovane, mi apriva letteralmente il mondo rispondendo al mio bisogno di avventura, di scoperta, di autonomia. Ideali e valori concretizzati in una Legge, una Promessa e in uno stile di vita che calzavano a pennello con la mia esuberanza e il mio carattere, che mi appassionavano e mi facevano intravedere un percorso entusiasmante. E non solo, davano una decisa svolta alla mia fede vissuta con gesti, segni e parole nuove. Il nostro assistente era un anziano domenicano, ma sapeva parlare al cuore di noi Guide. La sera della veglia d’armi prima della Promessa mi chiese se mi sarebbe piaciuto essere capo reparto una volta diventata scolta viandante. Rimasi sbalordita da quella domanda, in effetti era un mio grandissimo desiderio, ma ero solo all’inizio del sentiero e poi ero l’ultima arrivata. Certo, risposi, e lui di rimando dandomi del lei come sua abitudine mi disse, farà un ottimo servizio. Non sapevo allora che il mio assistente, Padre Ruggi, era colui che aveva fondato con otto giovani donne l’AGI e ricevuto la prima promessa di Giuliana di Carpegna. È sicuramente in Padre Ruggi la continuità con chi aveva iniziato a tessere il sogno. Oggi me ne sento testimone. Sono forse una delle ultime Promesse benedette da lui, e mi considero idealmente unita a chi iniziò il sogno.

Perché dovette essere stato proprio un sogno quello di Giuliana di Carpegna e Josette Bruccoleri immaginare, in quell’estate estate di ottant’anni fa a cavallo tra il 25 luglio e l’8 settembre, che ci potesse essere un futuro diverso per le bambine e le ragazze italiane quando tutto fosse finito. Il sogno si chiamava guidismo e come scriveva Josette Bruccoleri vent’anni dopo la nascita dell’AGI, “Tutti i valori della democrazia erano racchiusi in quella parola: “Guidismo“, che pronunciavamo senza sforzo; tutti gli ideali civici erano raccolti nel metodo pedagogico, che conoscevamo tutte e due perché facevano parte del nostro patrimonio culturale. Dentro di noi sentivamo che la risposta per l’avvenire delle nostre bimbe era là, facilmente raggiungibile. Si trattava solamente di cominciare il lavoro, facendo una prima scelta di adulte quale future dirigenti”.

Sono sempre rimasta affascinata dalla nascita dell’Associazione Guide Italiane a Roma durante l’occupazione tedesca, in un clima di guerra, di razzia e di terrore. La nascita di una Associazione scout, cattolica, femminile, in uno dei momenti più bui della storia del nostro paese, la nascita in catacomba a Priscilla sulla via Salaria. La trovo di una bellezza, di un coraggio, di una forza straordinari e un segno decisamente profetico. Oggi dovremmo raccontare alle nostre Guide e ai nostri Scout questo inizio del guidismo in catacomba, dovremmo portarli nella piccola cappella dove furono pronunciate le promesse degli Scoiattoli, dovremmo vivificare le radici del Guidismo così intimamente legate alle radici cristiane.

Priscilla è l’altra Val Codera. Perché come in Val Codera è stata mantenuta la fiamma dello scautismo, a Priscilla è nata la speranza di un futuro diverso, nuovo, libero per le bambine e le ragazze, intessuta con il nostro splendido Metodo.

Le donne che hanno fondato, costruito e diffuso l’AGI in Italia, sono donne che hanno saputo vedere oltre la tragedia morale e fisica della guerra e si sono rimboccate le maniche nella ricostruzione di un tessuto sociale a partire dalle generazioni più giovani, utilizzando un formidabile metodo educativo e coniugandolo nel tempo con le domande della società. Mi permetto di paragonarle alle ventuno donne dell’Assemblea costituente. Due sparuti gruppi di donne in un mondo, quello politico e quello scout, allora prettamente maschile che offrirono il loro contributo alla realizzazione di un vivere sociale paritario pregno di valori tutt’oggi irrinunciabili.

Di queste donne sono per generazione figlia. Anagraficamente, invece, con i miei vent’anni declinati negli anni ’70, appartengo all’ultima generazione di capo dell’AGI e alla prima dell’AGESCI. Sono una capo dell’unificazione, ma se mi chiedete da dove vengo vi risponderò che vengo dall’AGI. L’AGI mi ha dato l’imprinting di capo. Il mio stile di capo viene dalla ricchissima esperienza dei miei primi anni di servizio maturata, migliorata, arricchita dall’AGESCI e dall’età, ma fondata sugli elementi appresi allora: la gioia di essere capo, la consapevolezza di essere uno strumento del Signore per accompagnare le ragazze e i ragazzi alla sua scoperta, la flessibilità del metodo, la creatività. La profezia di Padre Ruggi si realizzò fin troppo presto: a diciannove anni ero Capo Riparto, come si chiamava in AGI.

Essere capo nell’AGI significava principalmente gioia, perché l’unità era un “giogo soave” e una risposta ad una chiamata al servizio nella chiesa e nella società. In genere una unità era condotta da capo e vice con la collaborazione dell’AE e ciò favoriva la responsabilizzazione delle Capo Squadriglia in Riparto e delle singole Scolte in Fuoco. L’essere unità non troppo numerose creava spirito di comunità e amicizia, il metodo si adattava alle esigenze del gruppo, si ritagliava sulle personalità delle guide, si declinava in fasi dell’anno che prevedevano ritmi più lenti o più intensi, il cammino di fede, la liturgia, la spiritualità s’intessevano senza troppo sforzo nella vita dell’unità in modo armonico, naturale. Ma forse un elemento caratterizzante era la collaborazione tra Capo. L’essere una piccola Associazione portava naturalmente a sostenersi reciprocamente. Le Capo di un medesimo Ceppo (per chi non lo sapesse era l’equivalente AGI del Gruppo) si aiutavano e si confrontavano e molto spesso sostenevano l’équipe d’unità (altro termine AGI per indicare le pattuglie) partecipando a campi o route. La stessa solidarietà si estendeva alle unità del territorio senza timore del confronto. Si facevano uscite o campi con Reparti più piccoli o Squadriglie libere che non avrebbero avuto la forza di organizzarsi da soli, si ospitavano giovani capo per qualche periodo di tirocinio, si gemellavano squadriglie per uscite. Ed essendo realtà monosessuali si acquisiva la fiducia in se stesse, l’autonomia, la consapevolezza di essere in grado di superare difficoltà e di sapersela cavare con la propria competenza. Certo le nostre cucine sopraelevate erano semplici, i nostri refettori lineari, le antenne essenziali, ma che soddisfazione quando s’alzava la bandiera all’inaugurazione del campo! E che momenti intensi la sera intorno al fuoco raccontandoci la giornata, ridendo di cuore e cantando insieme accompagnate dalle immancabili chitarre.

La spinta alla coeducazione partì dal basso, dalle unità: dai fuochi e dai reparti che si confrontavano sul territorio con gruppi prevalentemente dell’ASCI. I tempi erano quelli dei grandi cambiamenti e noi giovani Capo ci sentivamo totalmente protagoniste di questo clima. Del resto l’AGI da tempo percorreva strade d’apertura al sociale, di attenzione alle situazioni emarginate delle periferie, di analisi dei contrasti della società, di rilettura del metodo, di presenza attiva nel laicato della chiesa. I miei anni di fuoco, in tutti i sensi, coincisero con il ’68, il ’69, il ’70 date che parlano da sole. Era anacronistico educare con il metodo scout separatamente maschi e femmine e la strada l’aprì la nascita delle comunità dei capi AGI e ASCI già nel 1972, due anni prima dell’unificazione.

Ma non fu affatto facile. Fu entusiasmante, coinvolgente, per certi versi rivoluzionario e sicuramente profetico, ma non facile. E oso dire, a distanza di cinquant’anni e una vita di servizio in AGESCI, in particolare proprio per le Capo dell’AGI. Il Guidismo non era lo scautismo al femminile, ma una proposta scout ritagliata sulle peculiarità delle bambine e delle ragazze riletta sui veloci cambiamenti della società e della chiesa nello sforzo di una educazione ai valori della Legge e delle Beatitudini ed a un impegno personale che contribuisse realmente all’effettiva partecipazione della donna. La scelta della diarchia fu senz’altro un passaggio essenziale per la corresponsabilità, ma non bastò a facilitare il percorso dell’unificazione. Non è questa la sede per ripercorrere le gioie e le fatiche di quegli anni che ho vissuto intensamente nella Pattuglia nazionale E/G e nella formazione capi. Penso che invece sia un’occasione privilegiata per mettere a fuoco qualcosa di caratteristico dell’AGI che forse si è perso e tutto quello che invece è stato profuso nell’AGESCI, quello che per anni si è chiamato in Associazione il “patrimonio AGI” talvolta con un pizzico d’ironia quasi fosse un’antica dote.

Abbiamo perso nel lessico comune il termine Guida. “Faccio scout o vado a scout” è il modo più comune con cui una ragazzina si racconta, come se la sua unità fosse una piscina o una palestra. Non è un dettaglio. È l’aver spostato sulle attività, il fare, il senso di appartenenza, l’essere. E non solo. È aver omologato nel termine scout, quasi fosse neutro, maschi e femmine annullando le differenze. Io sono una guida, con tutta la bellezza di questo termine che fu scelto da BP per le ragazze ispirandosi alle guide indiane di frontiera il cui compito era quello di mantenere la pace sui confini e alle guide alpine abilissime a trovare i passaggi in montagna e aiutare a superare le difficoltà incontrate. Accompagnare, aiutare, mantenere la pace, non mi sembra poco. Forse dovremmo raccontare di nuovo nelle nostre unità il significato dei termini guida e scout e farne apprezzare alle ragazze e ai ragazzi il significato profondo perché desiderino davvero diventare guide o scout. Mi sono soffermata su questo particolare non per nostalgia, ma per vivificare con un percorso verso le fonti il senso profondo di due parole cardine della nostra Associazione. Credo profondamente che anche oggi “essere” Guida e “essere” Scout sia un valore aggiunto per ogni ragazza e ragazzo. Non a caso la nostra Legge recita “La Guida e lo Scout sono…”, non fanno, pur se la nostra è la pedagogia dell’imparare facendo. Forse abbiamo anche perso qualche tratto di stile. L’attenzione alle piccole cose, la cura di alcuni gesti, segni e momenti della vita al campo, il motto di squadriglia sostituito da un non sempre gradevole urlo, il quadrato al posto del cerchio, i pantaloncini come uniforme di fatto nella gran parte dei Gruppi e una serie di piccole sfumature che, nell’impatto dell’unificazione e nei mutamenti della società, sono state abbandonate o dimenticate.

Notevole comunque è stato il contributo dell’AGI alla nascente AGESCI contributo che tutt’oggi ci caratterizza e che sintetizzerei negli ambiti dell’attenzione al sociale e alla cittadinanza attiva, degli stimoli nel cammino di fede e della partecipazione responsabile al laicato della Chiesa e nella relazione educativa. Al momento dell’unificazione l’AGI aveva già maturato una particolare sensibilità verso la società e la realtà del Paese. L’associazione si era interrogata e si interrogava profondamente su come rispondere ai bisogni che provenivano dall’esterno. Il servizio delle scolte era orientato a conoscere e operare, dove possibile, in realtà emarginate e ancora poco conosciute come periferie urbane, orfanatrofi, istituti per disabili. L’impegno per l’apertura di unità in ambienti svantaggiati, in realtà territoriali più decentrate per offrire una proposta mirata alle bambine e alle ragazze che permettesse loro di “prendere coscienza”, come si diceva allora, delle loro potenzialità e favorire la loro realizzazione, può essere considerato un piccolo, ma reale contributo al cambiamento della condizione femminile.  Il documento che vi è stato consegnato, la proposta AGI del Consiglio Generale 1973, mostra chiaramente, in un linguaggio tipico del periodo, questa attenzione e sensibilità.

Anche il taglio della relazione educativa presente nell’AGI ha contribuito fin dai primi anni dell’AGESCI ad una riflessione per affinare e migliorare il rapporto capo ragazzo. Era una relazione “non direttiva”, una relazione educativa a tutto tondo: fraterna, calda, ricca di cura e attenzione alla persona nella sua interezza, agli ambienti che frequentava, alle passioni che aveva, alle difficoltà che incontrava dentro e fuori l’unità. Ciò permetteva un dialogo franco e leale, un’amicizia che andava crescendo con l’età e soprattutto una fiducia reciproca.

Il nostro è un metodo che si basa sulla fiducia: sul sapersi affidare all’altro, sul poter contare sull’altro, sul fidarsi della sua competenza. Stima e fiducia fanno del capo veramente una sorella e un fratello maggiore. Ciò permetteva e permette di fidarsi anche di Gesù, di quel Gesù amico e presente, incarnato e scoperto in una relazione sincera e disinteressata fondata sull’amore. Un Gesù vivo e compagno d’avventura, quella della vita e non relegato ad un quadretto in sede o a uno sciatto padrenostro d’inizio riunione. Quante occasioni ho avuto di conoscere meglio le mie guide e in seguito anche i miei scout, passando negli angoli di squadriglia mentre cucinavano al campo, dando una dritta per sistemare una legatura, facendo una battuta per correggere l’ordine nella tenda e pranzando con loro cogliendo l’informalità del momento per chiacchierare e talvolta affrontare temi che non sarebbero scaturiti altrimenti. Il tempo per stare con loro era il più prezioso e pace se saltava un’attività programmata.

Mi è capitato più di una volta nelle decine di campi, route, incontri e convegni dell’AGESCI a cui ho partecipato in tutti questi anni, che qualche capo, giovane o meno giovane, mi abbia detto che avevo un tratto AGI, uno stile AGI, dettato da qualche particolare: il segno lasciato alla fine del campo, la lettera di ringraziamento, il momento di spiritualità. Mi ha fatto un enorme piacere, perché nell’AGESCI, allora come ora, ho sempre cercato di portare la mia parte da capo, la mia parte di Guidismo che reputo essenziale al successo del nostro impegno educativo.

Da questo grande patrimonio che l’AGI ha riversato fin dai primi anni nell’AGESCI attraverso l’impegno di donne creative, talvolta un po’ visionarie, appassionate, tenaci, capaci di confrontarsi con convinzione e serietà per delineare le proposte educative della nuova associazione, credo che oggi si possano attingere alcuni spunti importanti e rinverdire alcune tracce su cui riflettere serenamente nelle nostre strutture e Comunità Capi.

Il rispetto e l’esperienza di genere. L’argomento è delicato e, direi, estremamente sensibile, oggi più di ieri. Il Regolamento Metodologico pone particolare attenzione al rispetto dell’identità di genere nelle tre branche affrontando il tema della coeducazione e dell’educazione all’affettività (art. 14 e 15) e offre in più punti alcune indicazioni operative che suggeriscono la progettazione di momenti monosessuali nelle branche E/G e R/S. Penso, però, che possiamo dirci con sincerità che ciò avviene raramente. Ancor più rara è in branca E/G la presenza di reparti paralleli. Non mi addentro sulle motivazioni che portano le Comunità Capi a scegliere unità miste in Branca E/G.  Vorrei, invece, sottolineare la valenza educativa di una esperienza di genere per le Guide, per gli Esploratori, per le Scolte e per i Rover. La sola vita di Squadriglia, purtroppo sempre più ridotta e limitata nella realtà delle nostre unità, non basta.

Dare aria ai ragazzi e alle ragazze con un’esperienza monosessuale non può che far bene. Un’impresa, un’uscita, un campetto in cui vivere un’avventura, un servizio o la strada a propria misura. Uno spazio scelto, programmato e realizzato con il colore e il calore della propria appartenenza di genere, uno spazio in cui mettere a fuoco un interesse particolare, in cui realizzare quell’impresa, quel servizio, quella route tante volte desiderata. Si tratta di un’occasione imperdibile nella crescita personale, un’occasione per acquisire maggior fiducia nelle proprie capacità, per misurarsi e ritrovarsi in una dimensione più intima e fraterna, tornando più ricchi. Abbiate fiducia, funziona.

Riprenderci il tempo per la relazione con i nostri ragazzi. Aiutiamo i Capi e le Capo a stare con i ragazzi. Il recente isolamento dovuto al Covid-19 ci ha mostrato il grande bisogno dei più giovani di vivere e condividere esperienze concrete e tangibili insieme, forse ci ha dato una mano a comprendere il profondo significato di una relazione “in presenza” e la fragilità di un incontro virtuale. E se oggi la tentazione può essere quella di chiudersi nell’orizzonte di uno schermo, il nostro formidabile metodo continua a spalancare ai ragazzi e alle ragazze le porte della vita all’aperto, richiamandoci ad operare fuori dalle nostre sedi una relazione educativa, viva, concreta, affettuosa, gioiosa, ma più che altro non frettolosa, né superficiale da cui traspaia che ci stanno a cuore. “È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. E forse un nodo è qui: nel ritrovare il tempo per saper vedere la foresta che cresce senza essere divorati dagli input che ci vengono da ogni dove.

C’è una parola delle mie radici AGI che mi è rimasta incollata nell’anima e sulla pelle. È la parola Gioia. È il mandato evangelico: “Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”.

Il cammino verso la gioia attraversa la felicità e va oltre. Da quasi cinquant’anni educhiamo generazioni di felicità per condurle alla Gioia. Ecco, se nelle nostre Comunità Capi, se nella nostra route, avremo chiaro che stiamo accompagnando verso la Gioia i ragazzi e le ragazze a noi affidati, saremo capaci di far ardere i loro cuori. Allora le radici, ormai nel profondo terreno della nostra storia, sapranno di aver riposto bene la loro fiducia nei fiori sbocciati con cento colori diversi sul bordo della strada.

 

Lucina Spaccia

Sacrofano, 2 giugno 2023

foto di Andrea Pellegrini
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